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© Julian Vlad 1997

© Julian Vlad 1997

A volte mi domandano da dove nasca la mia passione per le tigri.
Considerata la superba bellezza, l’eleganza e il fascino dell’animale, non ci sarebbe in nessun caso da stupirsi, di fronte al mio palesare un amore incondizionato per queso nobile grande felino; anche a voler tralasciare, per un attimo, le mie inclinazioni animaliste.
Ma oltre a questo c’è di più.
C’è di più personale, di intimo, che affonda le proprie radici negli incanti dell’infanzia. In quei momenti che rimangono per sempre impressi, nel ricordo, con vivida chiarezza; e, al tempo stesso, come sospesi tra sogno e realtà.

Giusto la scorsa settimana, citavo una grande verità messa nero su bianco da Stephen King: gli dèi dell’infanzia sono immortali.
Un’affermazione che qui, ora, assume guisa di gomena, come di cima lanciata da un vascello all’altro a trainare al largo il nuovo praho della mia piccola flotta: il quinto, che se n’era rimasto a lungo in rada, in attesa del segnale che lo chiamasse allo scoperto. E di prahos, in questa occasione come mai prima d’ora, è giusto parlare. Perché il primo dio della mia infanzia è un pirata malese, nato dalla fantasia di Emilio Salgari a cavallo di inizio Novecento, e reso per la seconda volta immortale (sullo schermo televisivo, dopo esserlo divenuto una prima volta nei romanzi), da un attore indiano di nobile bellezza, eleganza e fascino. Proprio come una tigre, a cui il suo personaggio si ispira.

Qui sopra lo si può ammirare in alcune foto di scena giovanili, che risalgono al 1971 (neanche a farlo apposta, il mio anno di nascita). L’attore ha 25 anni, e dubito che in molti lo sapremmo riconoscere al primo colpo, nonostante i tratti squisiti, gli occhi verdi, lo sguardo volitivo.

Jean Dujardin

Jean Dujardin

Ingannati da memorie più recenti, si sarebbe forse tentati di scambiarlo per Jean Dujardin, premio Oscar 2012 come miglior attore per The Artist.
Che a sua volta è indubbiamente un figo della madonna, e propone in effetti una certa somiglianza. Se non fosse che il buon Jean, nazionalità e occhi scuri a parte, è di 26 anni più giovane del nostro eroe d’infanzia. (Capperi, è di un anno più giovane perfino di me).

Non lo riconosceremmo, perché siamo abituati da sempre a ricordarlo così. Con i capelli lunghi, a volte con sopra un turbante, gli occhi bistrati di kajal, le labbra michelangiolesche contornate da baffi e barba.

Il primo dio della mia infanzia è Kabir Bedi, in arte Sandokan, la Tigre della Malesia.

La Tigre dunque è un protagonista (letterario e televisivo), un uomo, un animale, e insieme più di tutto ciò. E’ una forza della natura, un ideale epico, di fascino assoluto, di coraggio e di eroismo leggendari. Rappresenta qualcosa di magico e primordiale. Qualcosa di cui l’immaginazione di un bambino di quattro anni e mezzo, abituato da sempre a giocare da solo (°), era assettata come di pura essenza vitale.

La prima puntata dello sceneggiato televisivo a firma del regista Sergio Sollima, tratto dal ciclo salgariano dei pirati della Malesia, andò in onda in prima serata il 6 gennaio del 1976. Quella sera, il bambino di quattro anni e mezzo che ero allora si trovava a casa dei nonni e zii paterni, insieme ai propri genitori. Immagino ci fossimo fermati lì a cena, in quel giorno di festa, che per me era la Befana e che solo molto più tardi avrei iniziato a chiamare Epifania, cioè quando avessi compreso il significato di questa parola.
Epifania significa intuizione improvvisa, rivelazione. E non c’è dubbio che l’Epifania del ’76 mi riservò una rivelazione potente; la prima, di una lunga serie che continua ancora oggi.

In quegli anni, nella casa dei miei nonni e zii paterni la tv era posta in alto, sopra una mensola, come capita ancora oggi di vedere in qualche bar o stanza d’albergo. Una collocazione che le conferiva un’aria di sacralità, facendola apparire come un totem.
La sera del 6 gennaio ’76 il totem era acceso e trasmetteva immagini in bianco e nero a volume udibile, nonostante nessuno degli adulti di fatto le stesse guardando, intenti – come immagino fossero – a cianciare fra loro di gente perlopiù moribonda o morta da qualche decennio. (Argomento preferito, allora come oggi, fra il mio vecchio e i suoi fratelli e cognati; nel frattempo, la conta dei caduti lungo l’arduo percorso della vita, che siano stati a loro noti, in quattro decadi è aumentata di qualche decina; cosicché, le conversazioni sul tema si possono oramai sbizzarrire all’infinito).
Non ricordo se i miei cuginetti, di 5 e 10 anni maggiori di me, stessero guardando la tv. Forse sì, anzi è probabile. Quel che è certo è che la guardavo io. In piedi, appoggiato a un tavolo, del quale ero poco più alto, le mani aggrappate al bordo. E il naso all’insù, verso il totem.

La prima puntata di Sandokan si apre con il rapimento di due bambini, attraverso scene di inseguimenti e combattimenti individuali, che si susseguono lungo una spiaggia e fra alcuni bungalow. Dopodiché il contesto cambia, e compaiono due coppie di personaggi, che alternandosi fra loro non fanno altro che conversare; per l’immaginazione di quel bambino ciò era poco interessante, così che non ne conservo alcun ricordo.
Rivedute, più e più volte, negli anni a venire, avrei compreso che quelle scene di soli dialoghi servivano ad introdurre l’aura dell’eroe, a rivelarne la presenza, la spina nel fianco, da egli costituita, nelle parole dei propri nemici; e i segni del suo passaggio in una cella vuota e nei corpi riversi, morti o feriti, di alcune guardie. Una cella che racchiudeva i due bambini di cui sopra, eredi di un regno locale, che James Brooke, il rajah bianco di Sarawak (un grande Adolfo Celi, capace di dar vita ad uno dei “cattivi” più indimenticabili della storia del cinema e della tv), aveva fatto rapire nell’intento di convincere la famiglia regnante a scendere a patti con lui, all’ombra della bandiera di Sua Maestà Britannica.

Dopo i dialoghi di cui sopra, la scena trasloca a Mompracem, isola di pirati – e qui arriviamo al filmato sotto riproposto – dove un carismatico Philippe Leroy è l’interprete di uno Yanez de Gomera di sopraffina arguzia e ironia, intento a insegnare le buone maniere al compagno Sambigliong (chi non si ricorda del grosso e un po’ stolido Sambigliong? Una sorta di Obelix malese, uno di quei personaggi secondari che visti una volta non si scordano più), nell’attesa che l’amico Sandokan, la cui assenza si sta prolungando più del previsto, faccia ritorno.

Nel frattempo, sir Brooke rivela a un ufficiale britannico suo ospite (Andrea Giordana, nei panni di sir William Fitzgerald) dello stratagemma “politico” attuato con il rapimento dei due piccoli principi, e insieme a lui si reca alle prigioni per far loro visita; solo per scoprire che qualcuno gliel’ha fatta sotto il naso, liberandoli. Con l’ultimo respiro, una guardia morente rivela il nome di quel qualcuno: è stata la Tigre!.
A tali parole, l’inquadratura stacca su una bandiera che garrisce al vento.
La bandiera è questa qui:

La bandiera della Tigre di Mompracem garrisce al vento in cima all’albero di mezzana di un praho malese, sul quale si muove un indaffarato equipaggio. Finalmente, le vedette di Mompracem ne avvistano le vele, e da terra tutti iniziano a lanciare grida di giubilo, far volare aquiloni, sparare salve di fucile e di cannone.
A bordo del praho, i due piccoli principi, un bambino e una bambina, ormai al sicuro dalle mire del perfido tiranno britannico, sono affacciati alla murata di dritta del cassero di poppa, e osservano le scene di festa che si susseguono a riva. Parlano rivolgendosi al loro salvatore, all’eroe; che dapprima è fuori campo, e poi, per la prima volta dall’inizio della storia, entra in scena, ponendosi alle loro spalle.
A un certo punto la bambina gli si rivolge così: “Ma tu dicci il tuo nome”. Mentre l’inquadratura stringe sul suo primo piano, lui fa lo sguardo amorevole, e risponde: “Il mio nome? Sandokan”.

Ecco, questo è il mio primo ricordo del primo dio della mia infanzia. O, in altre parole, del mio fanciullesco imprinting. E per farvi capire quanto sia rimasto legato alla Tigre (con la maiuscola, in quanto ideale, non soltanto animale né soltanto uomo), mi rimangono da raccontarvi una cosa o due. Ma lo farò la prossima volta 🙂

Non prima, però, di avervi dato modo di riascoltare la celebre sigla iniziale:


Stay tuned!

L'incontro fra Yanez e Sandokan, al ritorno di quest'ultimo dalla riuscita spedizione con la quale ha liberato i due piccoli principi rapiti

L’incontro fra Yanez e Sandokan, al ritorno di quest’ultimo dalla spedizione in cui ha liberato i due piccoli principi rapiti

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(°) Sia perché figlio unico, sia perché, pur abitando in un condominio dove c’erano molti altri bambini della sua età, era spesso tenuto in casa, e sempre guardato a vista e a corta distanza dalla madre, giusto un filo apprensiva; quasi temesse che l’infante si potesse smaterializzare, oppure venire dilaniato orribilmente da un altro bambino, eventualmente antropofago, casomai lei avesse distolto lo sguardo per un istante.